venerdì 8 febbraio 2013

IL PAESE DELL' INDUSTRIA "PESANTE"


Nigeria _ stories of slavery @Maris Davis Foundation for Africa

Gli omicidi invisibili delle donne nigeriane

07 gennaio 2013
Se le donne italiane fossero uccise con la stessa frequenza delle nigeriane in Italia nell’ultimo anno, ci sarebbero stati quattromila casi. È il calcolo dell’Associazione vittime ed ex vittime della tratta diffuso da Isoke Aikpitanyi, in un’intervista rilasciata al Redattore Sociale, che fa il punto sulla drammatica situazione delle connazionali. “Solo nel 2012 in Italia sono state assassinate dieci nigeriane – riferisce – dieci sulle 15 mila donne presenti in Italia sono un’enormità”. Eppure queste donne nere cosiddette  “clandestine” non trovano un posto nelle prime pagine dei quotidiani.
Schiavizzate, gettate sui marciapiedi, con reggiseni e tacchi a spillo. Non è libera scelta o “prostituzione” ma lavoro forzato: tratta. Una realtà sommersa di debiti, reti mafiose e trafficanti che rendono quella riduzione in schiavitù possibile oggi in Italia. Le storie agghiaccianti di quelle donne, le aveva raccolte Isoke Aikpitanyi, ex vittima della tratta nel suo bellissimo libro-inchiesta “500 storie vere. Sulla tratta delle ragazze africane in Italia.” (Ediesse).
Una lettura sconvolgente: il vissuto quotidiano è fatto di violenze e di insulti di stranieri e d’italiani perbene, veri stupratori a pagamento. Quelle ragazze contratto alla partenza un debito tra i 40 e gli 80mila euro con i trafficanti, approdano nelle nostre città, dove le aspettano le “maman”, nome ingannevole per indicare donne che sfruttano il corpo di altre donne. Confiscato loro il passaporto, le buttano per strada, dove inizia il circolo vizioso del debito. Le ramificazioni allargate del controllo delle “schiave” e l’omertà di comunità e chiese nigeriane che, strumentalizzando tradizioni e voodoo, tengono quelle ragazze soggiogate: terrorizzate all’idea di ribellarsi. Ci vuole coraggio, tanto, per sfidare il racket e osare la denuncia, al rischio di orribili spedizioni punitive: minacce, ritorsioni e terribili punizioni corporali, spesso mortali, come deterrente finale. Nella cronaca alle volte si legge di cadaveri, abbandonati in periferie e discariche, che silenziosamente raccontano l’orrore.
Spesso le nigeriane non conoscono i servizi di tutela, o non sanno accederci e a chi chiedere aiuto: “Noi vittime ed ex vittime della tratta sappiamo, per esperienza, che i centri antiviolenza non sono operativi a nostro favore e lo sono solo in parte a favore delle donne straniere” avverte Aikpitanyi. Che precisa: “Non è un’accusa o una critica. È che i centri antiviolenza sono nati per una tipologia di attività rivolte soprattutto alle donne italiane (…)”. Nei servizi antitratta, poi non c’è spazio per chi ha vissuto in passato quest’esperienza, e peggio, pochissime vittime ed ex vittime hanno avuto questa opportunità di lavorare con un stipendio. Cosa che rischia di farle uscire dalla clandestinità ma non dal racket, allorché con denunce dei trafficanti di esseri umani da mandare in galera e un percorso in case associative, ci si può liberare.
Tutte queste criticità alimentano un senso di isolamento delle vittime della tratta dal resto della società civile. Pesa, soprattutto, la difficoltà a far ascoltare la propria voce: “Invece di ascoltarci, le donne italiane preferiscono rappresentarci loro, prendendosi tutto lo spazio, cercando di capire, interpretare e rappresentare noi, che vorremmo farlo direttamente”. Le immigrate ex “schiave”, soggetti attivi, conoscono infatti meglio le soluzioni ai loro complessi problemi e possono offrire un reale sostegno alle vittime per farle uscire dai meccanismi dalla tratta. Per l’associazione di Isoke, per fermare la piaga del femminicidio “bisogna mettere in campo molte energie, sensibilità diverse e avere la lucidità per conoscere il problema sotto tutti i suoi aspetti”. Bisogna anche, d’urgenza, chiedere il rafforzamento dei centri antiviolenza e dei servizi antitratta. Intanto se fossero sensibilizzati i clienti, anello fondamentale della catena dello sfruttamento sessuale, si potrebbero subito dimezzare le vittime.
pubblicato nell’edizione nazionale del 7 gennaio 2012, il dossier, p.11


Galliate, a metà di una giornata ventosa. Tre ragazze, nigeriane, occupano l’inizio di una selvaggia stradina che, dalla trafficata carreggiata che da Galliate porta al Ticino e alla Lombardia, si inoltra nel parco. Il tempo di fare inversione di marcia e tornare indietro; due di loro sono sparite, lasciando una sedia di plastica sporca e un secchio capovolto.
V. ha 25 anni al massimo, è seduta ad ascoltare la musica. Veste maglia e pantaloni larghi, una spalla è scoperta dall’ampia scollatura. C., mediatrice nigeriana, è la prima a scendere dalla macchina per parlare con la sua connazionale, ma L., operatrice italiana, non resiste molto e subito scende anche lei: «ma dai, neanche un sorriso» commenta slacciando la cintura di sicurezza. E le bastano solo pochi istanti per far nascere quel sorriso, bellissimo.
Poche parole, qualche sguardo intenso: un intervento-tipo effettuato dall’associazione Liberazione e Speranza di Novara. Da 13 anni si occupa di contrastare il fenomeno della prostituzione attraverso l’attuazione di percorsi di recupero e reinserimento delle ragazze vittime di tratta nella società e di attività di informazione destinate alle scuole e alla cittadinanza.
È il lavoro di L., il lavoro di C. e di altre persone che si dedicano notte e giorno a questo impegno. Dopo l’uscita, Laura parla per un’ora: spiega l’associazione e il suo operato, delinea le caratteristiche del drammatico fenomeno e, nel mentre, si racconta.
Riappropriazione delle parole e sensibilizzazione dell’opinione pubblica riguardo il tema, come «quando chiamano le ragazze “prostitute” a me viene un po’ il nervoso perché sono “prostituite”; cioè costrette, sono schiave, quindi sono vittime di tratta; queste sono le schiave del nuovo millennio».
E, «chiaramente, facciamo le uscite per contattarle ma molte vengono qua da sole. Ormai sono tredici anni che esiste questa associazione, le ragazze che abbiamo aiutato dieci anni fa o nove o otto, sono loro che le accompagnano. Magari vedono le ragazze per la strada e dicono: “sister vieni qua, in quell’ufficio c’è qualcuno che ti può aiutare”. Oppure ci chiamano pronto soccorso e ospedali che vedono una situazione un po’ particolare di una incinta, molto giovane, nigeriana. Ci conoscono e ci chiamano».
Entrano nel programma di reinserimento protezione sociale e iniziano il loro percorso dalla casa di fuga, passando per la casa di prima accoglienza e la casa di seconda, concludendo nella casa di semi autonomia. In questo periodo cercano, innanzitutto, di sostituire la vita sregolata di prima con dei tempi normali, dormendo la notte, mangiando e lavandosi regolarmente. Poi denunciano, raccontano quanto è loro successo, perché «non è solo finalizzato alla denuncia, ma è anche terapeutico. Loro possono raccontare tutto quello che è successo, se se lo tengono dentro stanno male. A noi serve per valutare se la ragazza ha bisogno di uno psicologo, o uno psichiatra, o di qualunque altra cosa». Volge verso il termine permettendo alla ragazza di acquisire autonomia, ottenendo il permesso di soggiorno per motivi umanitari, nonostante debbano sottostare a tempi terribilmente lunghi. Senza lavorare, senza avere la carta d’identità, senza assistenza sanitaria: senza poter guardare in faccia al futuro, «è come se non esistesse veramente in questo stato. Però lei è qua che aspetta ed è stressantissimo, è terribile, perché ci sono molti problemi burocratici, a volte l’attesa del documento può durare anche uno o due anni».
Ma di quali paesi sono le ragazze vittime di tratta nel novarese? Nigeria ed est Europa, Romania e Albania in particolare.
Le nigeriane sono la maggior parte; sono reclutate da conoscenti o parenti in Nigeria con la promessa di un lavoro onesto, come babysitter o parrucchiera. Le più fortunate ottengono dai trafficanti dei documenti falsi e raggiungono l’Italia in aereo, passando per Parigi; in altri casi, invece, «i trafficanti fanno fare il deserto a piedi, a volte devono bere la loro pipì per sopravvivere, spesso vengono stuprate nel deserto. Già solo il viaggio è un inferno». Alcune le fanno prostituire per un po’ in Libia, «a volte ci mettono un anno, da casa ad arrivare qua». In Italia, vengono affidate dall’organizzazione criminale a una madame, una sfruttatrice che si occupa di loro chiudendole in due o tre in una stanza; a chiave, perché non possano uscire.
Devono pagare l’affitto della “casa”, le bollette e il joint, «che è la postazione, il posto dove siamo andati oggi, di terra, che costa dalle duecento ai trecento euro al mese di affitto, quindi c’è un giro di soldi allucinante». Si aggiunge il costo del viaggio fino all’Italia: da un costo reale di circa diecimila euro sono costrette a restituire fino a centomila euro. E una prestazione costa dai 10 ai 30 euro, per la durata di un quarto d’ora «perché devi fare più clienti possibile. Difficile che stiano più di un quarto d’ora. Quindi poi dimmi tu come possono quelle ragazze pagare il debito».
Subiscono violenze, fisiche e psicologiche, «la madame le picchia, le fa stuprare, le fa fare il rito voodoo se cercano di ribellarsi, quindi vivono nel terrore, nella paura, anche di ripercussioni sulla famiglia». Per tenerle legate e per piegare la loro volontà, il rito voodoo, il patto di sangue, è il condizionamento psicologico più forte di qualsiasi altra cosa. L. spiega, dando voce a un’immaginaria ragazza, «Se spezzano il patto di sangue con la madame succederà davvero tutto quello che lei mi diceva che succederà: morirò, impazzirò, morirà mia madre, mia sorella».
Le ragazze bianche, invece, sono sempre sfruttate da uomini, spesso sono dei fidanzati che le portano via dal paese di origine proponendo loro una vacanza. Le portano qua e, dalla mattina alla sera, loro diventano dei massacratori, degli stupratori, dei torturatori. Passano poche ore tra l’arrivo nel “paese della vacanza” e la costrizione alla strada, tra violenze e torture. Se le ragazze si ribellano le modalità diventano sempre più feroci; una ragazza «l’hanno riempita di tagli, le hanno messo dentro tutto il sale nei tagli per farla soffrire. Agonia».
Il quadro del drammatico fenomeno della tratta, per cui collaborano organizzazioni criminali italiane e straniere, viene completato da numerosi complici. I clienti, che vanno a formare la domanda che la criminalità va a soddisfare, le politiche di rimpatrio previste per le ragazze, in quanto clandestine irregolari, le lacune e i limiti della legislazione, la corruzione delle istituzioni nigeriane.
Quello di Liberazione e Speranza è un lavoro duro e complicato. Nessuna associazione di questo genere è abbastanza potente da spaventare le organizzazioni criminali: tolta una ragazza dalla strada ne arriva subito un’altra, arrestata una madame ne mettono un’altra. «Però non voglio dire che questo lavoro è inutile – con un misto tra amarezza e speranza, L. sorride –, noi cerchiamo di dare alle ragazze gli strumenti per tentare una vita diversa. Se anche una sola ce la fa, per noi è un successo. Perché ogni persona secondo noi ha diritto ad avere la propria vita, la propria libertà, la propria dignità, anche fosse solo una che ce la fa grazie al nostro aiuto per me si potrebbe andare avanti sempre. Negli ultimi mesi abbiamo fatto tantissime uscite e ne è arrivata solo una, ma quella è arrivata. E quella donna riuscirà a cambiare la sua vita, quella donna denuncerà l’organizzazione criminale, combatterà per riprendersi la sua vita e noi saremo in prima linea con lei e questo secondo me e' sufficente.

stiamo risalendo la china.
stiamo ritornando ad essere
"industrializzati" peccato
peccato che sia un industria che ci riguarda poco, visto che il 99% della popolazione non
si accorge nemmeno che 
esistono gia' aree "ghetto"
e che la fabbrica del calcio
non e' l'unica a creare denaro
sono ormai tante e nascoste
le fabbriche degli utili...












 



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