Gli omicidi invisibili delle donne nigeriane
07 gennaio 2013
Se le donne italiane fossero uccise con la stessa frequenza delle nigeriane in Italia nell’ultimo anno, ci sarebbero stati quattromila casi. È il calcolo dell’Associazione vittime ed ex vittime della tratta diffuso da Isoke Aikpitanyi, in un’intervista rilasciata al Redattore Sociale, che fa il punto sulla drammatica situazione delle connazionali. “Solo nel 2012 in Italia sono state assassinate dieci nigeriane – riferisce – dieci sulle 15 mila donne presenti in Italia sono un’enormità”. Eppure queste donne nere cosiddette “clandestine” non trovano un posto nelle prime pagine dei quotidiani.
Schiavizzate, gettate sui marciapiedi, con reggiseni e tacchi a spillo. Non è libera scelta o “prostituzione” ma lavoro forzato: tratta. Una realtà sommersa di debiti, reti mafiose e trafficanti che rendono quella riduzione in schiavitù possibile oggi in Italia. Le storie agghiaccianti di quelle donne, le aveva raccolte Isoke Aikpitanyi, ex vittima della tratta nel suo bellissimo libro-inchiesta “500 storie vere. Sulla tratta delle ragazze africane in Italia.” (Ediesse).
Una lettura sconvolgente: il vissuto quotidiano è fatto di violenze e di insulti di stranieri e d’italiani perbene, veri stupratori a pagamento. Quelle ragazze contratto alla partenza un debito tra i 40 e gli 80mila euro con i trafficanti, approdano nelle nostre città, dove le aspettano le “maman”, nome ingannevole per indicare donne che sfruttano il corpo di altre donne. Confiscato loro il passaporto, le buttano per strada, dove inizia il circolo vizioso del debito. Le ramificazioni allargate del controllo delle “schiave” e l’omertà di comunità e chiese nigeriane che, strumentalizzando tradizioni e voodoo, tengono quelle ragazze soggiogate: terrorizzate all’idea di ribellarsi. Ci vuole coraggio, tanto, per sfidare il racket e osare la denuncia, al rischio di orribili spedizioni punitive: minacce, ritorsioni e terribili punizioni corporali, spesso mortali, come deterrente finale. Nella cronaca alle volte si legge di cadaveri, abbandonati in periferie e discariche, che silenziosamente raccontano l’orrore.
Spesso le nigeriane non conoscono i servizi di tutela, o non sanno accederci e a chi chiedere aiuto: “Noi vittime ed ex vittime della tratta sappiamo, per esperienza, che i centri antiviolenza non sono operativi a nostro favore e lo sono solo in parte a favore delle donne straniere” avverte Aikpitanyi. Che precisa: “Non è un’accusa o una critica. È che i centri antiviolenza sono nati per una tipologia di attività rivolte soprattutto alle donne italiane (…)”. Nei servizi antitratta, poi non c’è spazio per chi ha vissuto in passato quest’esperienza, e peggio, pochissime vittime ed ex vittime hanno avuto questa opportunità di lavorare con un stipendio. Cosa che rischia di farle uscire dalla clandestinità ma non dal racket, allorché con denunce dei trafficanti di esseri umani da mandare in galera e un percorso in case associative, ci si può liberare.
Tutte queste criticità alimentano un senso di isolamento delle vittime della tratta dal resto della società civile. Pesa, soprattutto, la difficoltà a far ascoltare la propria voce: “Invece di ascoltarci, le donne italiane preferiscono rappresentarci loro, prendendosi tutto lo spazio, cercando di capire, interpretare e rappresentare noi, che vorremmo farlo direttamente”. Le immigrate ex “schiave”, soggetti attivi, conoscono infatti meglio le soluzioni ai loro complessi problemi e possono offrire un reale sostegno alle vittime per farle uscire dai meccanismi dalla tratta. Per l’associazione di Isoke, per fermare la piaga del femminicidio “bisogna mettere in campo molte energie, sensibilità diverse e avere la lucidità per conoscere il problema sotto tutti i suoi aspetti”. Bisogna anche, d’urgenza, chiedere il rafforzamento dei centri antiviolenza e dei servizi antitratta. Intanto se fossero sensibilizzati i clienti, anello fondamentale della catena dello sfruttamento sessuale, si potrebbero subito dimezzare le vittime.
pubblicato nell’edizione nazionale del 7 gennaio 2012, il dossier, p.11
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