domenica 24 febbraio 2013

2013 PREPARARSI ALL'ITALIA DEI "NUOVI VALORI"








DALL'ECONOMIA,ALLE POLITICHE SOCIALI,PASSANDO ALLA DIFESA, FINO ALL' AMBIENTE.......LE TRASFORMAZIONI SONO NELL' ARIA!!






giovedì 14 febbraio 2013

ITALIA: SEMPRE PIU' "COSCA"

INCHIESTA POTENTE SUI  
CALL CENTER: MA LA VERITA' E' BEN PIU' DRAMMATICA : LA MATERIA PIU' DIFFUSA SUL TERRITORIO E': "LA TIPA DISOCCUPATA". QUESTA  DRAMMATICA VERITA' FA SCATENARE TUTTE LE PIU' INCREDIBILI FANTASIE DELLE COSCHE (IO NE HO PROVE PERSONALI) PERCHE' PER OTTENERE COSA VOGLIONO, NON SI RISPARMIANO PIU' NEANCHE LE FORZE DELL'ORDINE (L' AMBITO DEGLI STRANIERI E' ATTUALMENTE IL MIGLIOR CAMPO D'AZIONE)

L’ultimo affare: i call center. Sì perché quella della potentissima cosca Bellocco di Rosarno, è una ‘ndrangheta che diversifica. E se in Calabria i boss regnano da imperatori e preparano faide in cui, sentenziano le donne di mafia, a morire dovranno essere “tutti, anche i minorenni”, in Lombardia si dedicano al business. Legale e milionario. Come dimostra la vicenda della Blue call srl, azienda specializzata nella gestione di call center con il centro direttivo a Cernusco sul Naviglio e sedi operative in tutta Italia (anche in Calabria, naturalmente). Un’impresa florida che solo nel 2010 ha chiuso un fatturato da 13 milioni di euro, facendosi segnalare come leader del settore. Un gioiellino, dunque. Gestito da Andrea Ruffino, il quale, agli inizi del 2011, apre le porte a un emissario dei boss. Finirà per cedere le quote. Regalando ai boss un vero bancomat cui accedere in ogni momento, ma soprattutto la possibilità di controllare un ampio consenso sociale attraverso le assunzioni. Un’arma formidabile anche per la gestione di pacchetti elettorali. Insomma affari al nord e controllo del territorio al sud. Il tutto sulla rotta Rosarno-Milano e ritorno. Questa la fotografia scattata dalle procure di Reggio Calabria e Milano che all’alba di questa mattina hanno dato esecuzione a 23 arresti tra Calabria per associazione mafiosa e Lombardia per intestazione fittizia di beni, accusa quest’ultima aggravata dall’utilizzo del metodo mafioso. Tra questi anche i soci della stessa Blue call.
“LE AZIONI NON SI CONTANO, SI PESANO E LE MIE PESANO DI PIU’”
Per comprendere il disegno basta leggere i capi d’imputazione. A Rosarno la mafia è armata. Mentre a Milano, questa stessa ‘ndrangheta (ben diversa da quella rappresentata dall’inchiesta Infinito) non spara, usa il computer e si appoggia a veri e propri intermediari del crimine. Gente insospettabile che, come in questo caso, prende contatti e mette in comunicazioni gli imprenditori con i boss. Carlo Antonio Longo, originario di Galatro (Reggio Calabria), è, infatti, il referente dei Bellocco al nord. Mega villa in Svizzera, titolare di un’azienda edile (chiusa nel gennaio scorso) schermata da un limited londinese, Longo è un uomo di mafia, violento e deciso, ma è anche un broker, capace di trattare con gli imprenditori del nord. Talmente sottile da minacciarli, citando a memoria una delle storiche frasi di Enrico Cuccia, per decenni eminenza grigia della finanza italiana. Dirà Longo all’imprenditore: “Le azioni non si contano, ma si pesano, e le mie pesano di più!”. Gli uomini del Gico guidato dal comandante Marco Menegazzo, ascoltano queste parole il 16 settembre 2011, periodo in cui la ‘ndrangheta si accinge a fare il passo definitivo: prendersi tutta l’azienda che in quel periodo conta oltre mille dipendenti.
L’IMPRENDITORE: “HO PRESO LE BOTTE, QUEL BASTARDO, CON IL COLTELLO ANCHE”
L’atto finale solo quattro giorni dopo, quando Andrea Ruffino (anche lui destinatario di un mandato di cattura, ma attualmente irreperibile) convocato da Longo e soci nella sede operativa di Cernusco sul Naviglio. Nella saletta ci sono una decina di persone, gente vicina alla cosca Bellocco, persone assunte in società senza le minime credenziali. In questo momento Longo regola i conti o, come dice lui, “taglia i rami secchi”. L’imprenditore di Ivrea viene massacrato di botte, dopodiché, con il coltello puntato alla gola, verrà “convinto” a cedere tutte le sue quote a una società preparata ad hoc dalla ‘ndrangheta. Uscito da quell’incontro, la vittima chiama subito la sua fidanzata per sfogarsi. “Ho preso le botte (…) mi ha dato una botta che sento malissimo adesso. Quel bastardo, guarda. Con il coltello anche, guarda (…) quello che dovevo raggiungere l’ho raggiunto ma fanno schifo. Sono uomini di merda. Ti giuro non sto sentendo da un orecchio”. L’imprenditore è stato massacrato. Però è sollevato, perché ha ottenuto la promessa di un minimo pagamento delle sue quote. Pagamento, che, alla maniera calabrese, non arriverà mai. Le conversazioni dei giorni successivi confermano il quadro agli investigatori. Un impiegato delle sue società vedendo l’imprenditore con l’occhio pesto gli consiglia di andare in ospedale. “Sì – risponde – e cosa dico che Longo mi ha fatto un’estorsione”. Il vaso è pieno. Lo sfogo arriva subito dopo: “Basta con questa ‘ndrangheta – dice l’ex titolare della Blue call – che si pigliassero tutto”.
UMBERTO BELLOCCO, IL PICCOLO PRINCIPE DELLA ‘NDRANGHETA
Eppure, mesi prima, l’imprenditore piemontese non la pensava così. Tutto inizia nel dicembre 2011, quando Emilio Fratto, commercialista con conoscenze importanti in ambito mafioso, pensa di rientrare da un credito che ha con l’imprenditore piemontese proponendo l’ingresso di nuovi soci nella Blue call. In questo modo, lo stesso Fratto crede di potersi liberare di un debito a sua volta contratto con la cosca Bellocco. Succede tutto velocemente. “C’è da fare questa cosa”, dice Fratto a Longo che prende tempo e riporta la possibilità a Umberto Belloco, il giovane e capriccioso principe del clan, il quale entrerà con entrambi i piedi nella vicenda fino ad essere il regista ultimo e questo senza aver la minima professionalità. Farà di più durante la latitanza terminata nel luglio scorso – sarà arrestato a Roma nel luglio scorso – il giovane Bellocco, da fuggiasco, percepirà un regolare stipendio dalla Blue call, oltre naturalmente ai vari benefit per allietare la latitanza.
LA SCALATA ALLA SOCIETA’: QUESTIONE DI PANZA E DI PRESENZA
La vicenda, quindi, nasce per un debito-credito. L’imprenditore, del resto, non si oppone. Anche perché, emerge dalle indagini, già sotto scacco da uomini legati ai clan di isola Capo Rizzuto. Quello che appare chiarissimo è il metodo con cui la ‘ndrangheta prima entra e poi conquista l’azienda. Longo, introdotto da Fratto, e per conto dei Bellocco, porta in società una serie di persone fino ad aver, inizialmente, il 30%. Questo, però, è solo il prologo di una scalata rapidissima. Tanto che lo stesso Umberto Bellocco intercettato dice: “Tu pensa che dove lavoro io ci sono 40 ragazzi…45…A Cernusco gestisco un Call-Center”. Insomma, il progetto mafioso va a gonfie vele e a costo zero. Longo è chiarissimo: “I soldi noi non li abbiamo messi”. E dunque? Prosegue: “Io non metto niente io prendo”. I Bellocco dunque cosa mettono. “La presenza – ribadisce Longo – panza e presenza”. L’espressione tipicamente mafiosa viene tradotta dagli investigatori: “I Bellocco, una volta entrati a far parte della società con un quota minoritaria (30%), stavano cercando di acquisirne il controllo con metodologie che facevano leva solo sul potere di intimidazione derivante dalla loro appartenenza alla ‘ndrangheta”. Panza e presenza appunto. Tanto basta “per prendersi il lavoro di una vita”, si sfoga così uno dei soci della Blue call. “Non è solo, il futuro dell’azienda (….) Stai sotto scacco per tutta la vita! Come dici tu: Non c’è via d’uscita , questi qua… E’ impossibile, capito. Oggi vogliono questo e domani cosa vogliono!? … E dopodomani cosa vogliono, scusami”.
“LORO SONO COME DIO CHE POSSONO DECIDERE TUTTO”
Ruffino un po’ intuisce, un po’ no. Addirittura pensa di estromettere i calabresi, liquidando la loro parte. Non sarà così, naturalmente. E Fratto lo avverte fin da subito: “Per il resto dei nostri giorni non ce li togliamo più dai piedi. Tu pensa di giocare, con loro, sulla lama del rasoio: poi, quando ti tagli, ti renderai conto delle mie parole (…) Io ti sto dicendo che questa razza la conosco, tu no”. L’imprenditore, dunque, sta giocando con il fuoco. Però insiste: “La morte – dice – non è il peggiore dei mali”. Fratto è chiarissimo: “Tu sei un pazzo”. E allora l’altro chiede: “Loro sono come Dio che possono decidere che tutte le persone muoiono no?”
L’imprenditore agganciato sa ma non si sgancia. Diventa complice. Ne è consapevole Ruffno che dice: “Io non voglio andare avanti con queste persone (…) stiamo puliti (…) e non rischiamo nessun 416bis”. Quindi ancora parole in libertà sul come liquidare questi calabresi. “Guarda io ho più soluzioni (…) mi sono rotto i coglioni io voglio stare separato perché voglio comandare io”. Tanto coraggio viene smorzato da una telefonata di Longo, il quale durante le festivita pasquali fa gli auguti a Ruffino. “Volevo salutarti (…) come stai (…) Insieme e alla tua famiglia, tanti auguri…Buona Pasqua, capito, fai una buona Pasqua e vivi felice e contento”.
SCHERMI SOCIETARI E ASSET MAFIOSI
Nonostante tutto l’imprenditore prosegue nel tentativo di liberarsi dei calabresi. Consapevole della mafiosità dei suoi interlocutori, ma ancora non del tutto consapevole della loro intelligenza criminale, chiude la Blue call e splitta l’intero assett (call center e immobiliare) su due società: la Future srl e la R&V. Nel frattempo, però, la ‘ndrangheta ha già creato una sua società schermo, la Alveberg con sede a Milano in via Santa Maria alla porta. Tra i soci c’è la anche la fidanzata di Longo. E’ dentro questa srl che confluiranno tutte le quote dell’imprenditore, dopo il pestaggio del 20 settembre.
NELLA FAIDA UCCIDERE ANCHE DONNE E BAMBINI
Questa è la ‘ndrangheta che colonizza Milano. Una ‘ndrangheta violenta e vorace. Capace di prendersi un’azienda da 13 milioni di fatturato senza fare rumore. E di progettare una faida dove coinvolgere anche donne e bambini. L’incredibile vicenda è narrata nella parte calabrese dell’inchiesta. E nasce da due omicidi di affiliati alla cosca. I sospetti ricadono sul clan pesce, un tempo alleati con i Bellocco. Tanto che il giovane erede del casato mafioso dice, intercettato, “Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro…sennò non è di nessuno”. Il rischio di una faida è concreto. Tanto che Umberto ne parla con la madre Maria Teresa D’Agostino. “Una volta – dice la donna – che partiamo, partiamo tutti, una volta che siamo inguaiati, ci inguaiamo tutti….dopo, o loro o noi o noi, vediamo chi vince la guerra, dopo…pure ai minorenni”. E ancora: “Pari pari, a chi ha colpa e a chi non ha colpa, non mi interessa niente…e femmine”.

venerdì 8 febbraio 2013

IL PAESE DELL' INDUSTRIA "PESANTE"


Nigeria _ stories of slavery @Maris Davis Foundation for Africa

Gli omicidi invisibili delle donne nigeriane

07 gennaio 2013
Se le donne italiane fossero uccise con la stessa frequenza delle nigeriane in Italia nell’ultimo anno, ci sarebbero stati quattromila casi. È il calcolo dell’Associazione vittime ed ex vittime della tratta diffuso da Isoke Aikpitanyi, in un’intervista rilasciata al Redattore Sociale, che fa il punto sulla drammatica situazione delle connazionali. “Solo nel 2012 in Italia sono state assassinate dieci nigeriane – riferisce – dieci sulle 15 mila donne presenti in Italia sono un’enormità”. Eppure queste donne nere cosiddette  “clandestine” non trovano un posto nelle prime pagine dei quotidiani.
Schiavizzate, gettate sui marciapiedi, con reggiseni e tacchi a spillo. Non è libera scelta o “prostituzione” ma lavoro forzato: tratta. Una realtà sommersa di debiti, reti mafiose e trafficanti che rendono quella riduzione in schiavitù possibile oggi in Italia. Le storie agghiaccianti di quelle donne, le aveva raccolte Isoke Aikpitanyi, ex vittima della tratta nel suo bellissimo libro-inchiesta “500 storie vere. Sulla tratta delle ragazze africane in Italia.” (Ediesse).
Una lettura sconvolgente: il vissuto quotidiano è fatto di violenze e di insulti di stranieri e d’italiani perbene, veri stupratori a pagamento. Quelle ragazze contratto alla partenza un debito tra i 40 e gli 80mila euro con i trafficanti, approdano nelle nostre città, dove le aspettano le “maman”, nome ingannevole per indicare donne che sfruttano il corpo di altre donne. Confiscato loro il passaporto, le buttano per strada, dove inizia il circolo vizioso del debito. Le ramificazioni allargate del controllo delle “schiave” e l’omertà di comunità e chiese nigeriane che, strumentalizzando tradizioni e voodoo, tengono quelle ragazze soggiogate: terrorizzate all’idea di ribellarsi. Ci vuole coraggio, tanto, per sfidare il racket e osare la denuncia, al rischio di orribili spedizioni punitive: minacce, ritorsioni e terribili punizioni corporali, spesso mortali, come deterrente finale. Nella cronaca alle volte si legge di cadaveri, abbandonati in periferie e discariche, che silenziosamente raccontano l’orrore.
Spesso le nigeriane non conoscono i servizi di tutela, o non sanno accederci e a chi chiedere aiuto: “Noi vittime ed ex vittime della tratta sappiamo, per esperienza, che i centri antiviolenza non sono operativi a nostro favore e lo sono solo in parte a favore delle donne straniere” avverte Aikpitanyi. Che precisa: “Non è un’accusa o una critica. È che i centri antiviolenza sono nati per una tipologia di attività rivolte soprattutto alle donne italiane (…)”. Nei servizi antitratta, poi non c’è spazio per chi ha vissuto in passato quest’esperienza, e peggio, pochissime vittime ed ex vittime hanno avuto questa opportunità di lavorare con un stipendio. Cosa che rischia di farle uscire dalla clandestinità ma non dal racket, allorché con denunce dei trafficanti di esseri umani da mandare in galera e un percorso in case associative, ci si può liberare.
Tutte queste criticità alimentano un senso di isolamento delle vittime della tratta dal resto della società civile. Pesa, soprattutto, la difficoltà a far ascoltare la propria voce: “Invece di ascoltarci, le donne italiane preferiscono rappresentarci loro, prendendosi tutto lo spazio, cercando di capire, interpretare e rappresentare noi, che vorremmo farlo direttamente”. Le immigrate ex “schiave”, soggetti attivi, conoscono infatti meglio le soluzioni ai loro complessi problemi e possono offrire un reale sostegno alle vittime per farle uscire dai meccanismi dalla tratta. Per l’associazione di Isoke, per fermare la piaga del femminicidio “bisogna mettere in campo molte energie, sensibilità diverse e avere la lucidità per conoscere il problema sotto tutti i suoi aspetti”. Bisogna anche, d’urgenza, chiedere il rafforzamento dei centri antiviolenza e dei servizi antitratta. Intanto se fossero sensibilizzati i clienti, anello fondamentale della catena dello sfruttamento sessuale, si potrebbero subito dimezzare le vittime.
pubblicato nell’edizione nazionale del 7 gennaio 2012, il dossier, p.11


Galliate, a metà di una giornata ventosa. Tre ragazze, nigeriane, occupano l’inizio di una selvaggia stradina che, dalla trafficata carreggiata che da Galliate porta al Ticino e alla Lombardia, si inoltra nel parco. Il tempo di fare inversione di marcia e tornare indietro; due di loro sono sparite, lasciando una sedia di plastica sporca e un secchio capovolto.
V. ha 25 anni al massimo, è seduta ad ascoltare la musica. Veste maglia e pantaloni larghi, una spalla è scoperta dall’ampia scollatura. C., mediatrice nigeriana, è la prima a scendere dalla macchina per parlare con la sua connazionale, ma L., operatrice italiana, non resiste molto e subito scende anche lei: «ma dai, neanche un sorriso» commenta slacciando la cintura di sicurezza. E le bastano solo pochi istanti per far nascere quel sorriso, bellissimo.
Poche parole, qualche sguardo intenso: un intervento-tipo effettuato dall’associazione Liberazione e Speranza di Novara. Da 13 anni si occupa di contrastare il fenomeno della prostituzione attraverso l’attuazione di percorsi di recupero e reinserimento delle ragazze vittime di tratta nella società e di attività di informazione destinate alle scuole e alla cittadinanza.
È il lavoro di L., il lavoro di C. e di altre persone che si dedicano notte e giorno a questo impegno. Dopo l’uscita, Laura parla per un’ora: spiega l’associazione e il suo operato, delinea le caratteristiche del drammatico fenomeno e, nel mentre, si racconta.
Riappropriazione delle parole e sensibilizzazione dell’opinione pubblica riguardo il tema, come «quando chiamano le ragazze “prostitute” a me viene un po’ il nervoso perché sono “prostituite”; cioè costrette, sono schiave, quindi sono vittime di tratta; queste sono le schiave del nuovo millennio».
E, «chiaramente, facciamo le uscite per contattarle ma molte vengono qua da sole. Ormai sono tredici anni che esiste questa associazione, le ragazze che abbiamo aiutato dieci anni fa o nove o otto, sono loro che le accompagnano. Magari vedono le ragazze per la strada e dicono: “sister vieni qua, in quell’ufficio c’è qualcuno che ti può aiutare”. Oppure ci chiamano pronto soccorso e ospedali che vedono una situazione un po’ particolare di una incinta, molto giovane, nigeriana. Ci conoscono e ci chiamano».
Entrano nel programma di reinserimento protezione sociale e iniziano il loro percorso dalla casa di fuga, passando per la casa di prima accoglienza e la casa di seconda, concludendo nella casa di semi autonomia. In questo periodo cercano, innanzitutto, di sostituire la vita sregolata di prima con dei tempi normali, dormendo la notte, mangiando e lavandosi regolarmente. Poi denunciano, raccontano quanto è loro successo, perché «non è solo finalizzato alla denuncia, ma è anche terapeutico. Loro possono raccontare tutto quello che è successo, se se lo tengono dentro stanno male. A noi serve per valutare se la ragazza ha bisogno di uno psicologo, o uno psichiatra, o di qualunque altra cosa». Volge verso il termine permettendo alla ragazza di acquisire autonomia, ottenendo il permesso di soggiorno per motivi umanitari, nonostante debbano sottostare a tempi terribilmente lunghi. Senza lavorare, senza avere la carta d’identità, senza assistenza sanitaria: senza poter guardare in faccia al futuro, «è come se non esistesse veramente in questo stato. Però lei è qua che aspetta ed è stressantissimo, è terribile, perché ci sono molti problemi burocratici, a volte l’attesa del documento può durare anche uno o due anni».
Ma di quali paesi sono le ragazze vittime di tratta nel novarese? Nigeria ed est Europa, Romania e Albania in particolare.
Le nigeriane sono la maggior parte; sono reclutate da conoscenti o parenti in Nigeria con la promessa di un lavoro onesto, come babysitter o parrucchiera. Le più fortunate ottengono dai trafficanti dei documenti falsi e raggiungono l’Italia in aereo, passando per Parigi; in altri casi, invece, «i trafficanti fanno fare il deserto a piedi, a volte devono bere la loro pipì per sopravvivere, spesso vengono stuprate nel deserto. Già solo il viaggio è un inferno». Alcune le fanno prostituire per un po’ in Libia, «a volte ci mettono un anno, da casa ad arrivare qua». In Italia, vengono affidate dall’organizzazione criminale a una madame, una sfruttatrice che si occupa di loro chiudendole in due o tre in una stanza; a chiave, perché non possano uscire.
Devono pagare l’affitto della “casa”, le bollette e il joint, «che è la postazione, il posto dove siamo andati oggi, di terra, che costa dalle duecento ai trecento euro al mese di affitto, quindi c’è un giro di soldi allucinante». Si aggiunge il costo del viaggio fino all’Italia: da un costo reale di circa diecimila euro sono costrette a restituire fino a centomila euro. E una prestazione costa dai 10 ai 30 euro, per la durata di un quarto d’ora «perché devi fare più clienti possibile. Difficile che stiano più di un quarto d’ora. Quindi poi dimmi tu come possono quelle ragazze pagare il debito».
Subiscono violenze, fisiche e psicologiche, «la madame le picchia, le fa stuprare, le fa fare il rito voodoo se cercano di ribellarsi, quindi vivono nel terrore, nella paura, anche di ripercussioni sulla famiglia». Per tenerle legate e per piegare la loro volontà, il rito voodoo, il patto di sangue, è il condizionamento psicologico più forte di qualsiasi altra cosa. L. spiega, dando voce a un’immaginaria ragazza, «Se spezzano il patto di sangue con la madame succederà davvero tutto quello che lei mi diceva che succederà: morirò, impazzirò, morirà mia madre, mia sorella».
Le ragazze bianche, invece, sono sempre sfruttate da uomini, spesso sono dei fidanzati che le portano via dal paese di origine proponendo loro una vacanza. Le portano qua e, dalla mattina alla sera, loro diventano dei massacratori, degli stupratori, dei torturatori. Passano poche ore tra l’arrivo nel “paese della vacanza” e la costrizione alla strada, tra violenze e torture. Se le ragazze si ribellano le modalità diventano sempre più feroci; una ragazza «l’hanno riempita di tagli, le hanno messo dentro tutto il sale nei tagli per farla soffrire. Agonia».
Il quadro del drammatico fenomeno della tratta, per cui collaborano organizzazioni criminali italiane e straniere, viene completato da numerosi complici. I clienti, che vanno a formare la domanda che la criminalità va a soddisfare, le politiche di rimpatrio previste per le ragazze, in quanto clandestine irregolari, le lacune e i limiti della legislazione, la corruzione delle istituzioni nigeriane.
Quello di Liberazione e Speranza è un lavoro duro e complicato. Nessuna associazione di questo genere è abbastanza potente da spaventare le organizzazioni criminali: tolta una ragazza dalla strada ne arriva subito un’altra, arrestata una madame ne mettono un’altra. «Però non voglio dire che questo lavoro è inutile – con un misto tra amarezza e speranza, L. sorride –, noi cerchiamo di dare alle ragazze gli strumenti per tentare una vita diversa. Se anche una sola ce la fa, per noi è un successo. Perché ogni persona secondo noi ha diritto ad avere la propria vita, la propria libertà, la propria dignità, anche fosse solo una che ce la fa grazie al nostro aiuto per me si potrebbe andare avanti sempre. Negli ultimi mesi abbiamo fatto tantissime uscite e ne è arrivata solo una, ma quella è arrivata. E quella donna riuscirà a cambiare la sua vita, quella donna denuncerà l’organizzazione criminale, combatterà per riprendersi la sua vita e noi saremo in prima linea con lei e questo secondo me e' sufficente.

stiamo risalendo la china.
stiamo ritornando ad essere
"industrializzati" peccato
peccato che sia un industria che ci riguarda poco, visto che il 99% della popolazione non
si accorge nemmeno che 
esistono gia' aree "ghetto"
e che la fabbrica del calcio
non e' l'unica a creare denaro
sono ormai tante e nascoste
le fabbriche degli utili...